Sull’anoressia c’è una grande curiosità. A certuni spaventa ma a molti intriga capire come mai certe persone arrivino a diventare così magre facendosi così tanto male. Esplorare il male è un modo per comprendere ciò che accade agli umani. I libri su questo tema fioriscono ovunque: fanno bella mostra anche nei bookshop delle stazioni. Autrici, forti della loro esperienza, raccontano come diventarono anoressiche e come poterono uscirne. Mi è capitato per le mani uno di questi un po’ diverso dagli altri: è scritto dalla Osgood e vuole essere una messa in guardia del lettore.

Quando la Osgood da adolescente diventò anoressica copiando le abitudini di altre anoressiche, credeva intensamente che l’anoressia non fosse una malattia, ma il modo più coerente per raggiungere il suo completo auto-controllo. Era una scelta talmente forte da apparire una ideologia. Da chi vi è passata ora ci aiuta a comprendere meglio l’assurdo di una logica che per farti diventare migliore ti distrugge. Questo è un paradosso: credere di diventare talmente forti che alla fine ci si ritrova distrutti.

Ma non c’è niente di veramente controllato nell’anoressia.

E’ una dipendenza vera e propria; anzi è l’unica che mi viene in mente che consiste nel dipendere dal bisogno che manchi qualcosa. Se il dipendente diventa una specie di pollo ingozzato da una quantità infinita di cose e prodotti, novello cliente ideale di un mercato che pensa solo a vendere, l’anoressia è l’opposto. Rifiuto qualsiasi cosa perché ogni cosa è corruzione, compreso il proprio corpo ed i suoi bisogni.

Un corpo affamato produce endorfine per contrastare un metabolismo congelato; la frequenza cardiaca rallenta, la temperatura corporea si abbassa. Questo spiega l’”high” che le anoressiche citano come routine inebriante. Ma la dipendenza diventa rapidamente comportamentale, fin troppo.

La rinuncia cronica, la “sfida pura” dell’anoressica sempre per citare Osgood – produce un vero stato delirante, una specie di visione del mondo alla Dickens, in cui le qualità interiori delle persone sono direttamente correlate ai loro attributi fisici. A differenza di altri tipi di dipendenza l’anoressia si traveste da virtù. L’ anoressica è un moderno frenologo, alla ricerca di santità che vive in una struttura ossea straniera. Lei è al tempo stesso folle, morente e disumana.

La Osgood oggi è furiosa per questo atteggiamento e perciò ne scrive in modo apertamente polemica; dice “rendiamo l’anoressia auspicabile collegandola a condizioni brillanti, belle, intelligenti come fossero situazioni poetiche, un qualcosa che migliora l’aura di una persona, la rende più glamour”. Poi ancora, “la persona che scrive le proprie focose battaglie crea una lunga poetica arrogante, un’elegia, un inno ad una presenza che fu, dimenticata. “Il linguaggio glamour usato per descrivere la malattia precede la sua denominazione, si può risalire a qualche secolo fa per trovare la prima descrizione di anoressia. Poi ancora nel 1873 gli studiosi hanno sostenuto che Bartleby di Melville, “così magra e pallida”, era una anoressica, una diagnosi che spiegava la persistenza della rara nocciolina di ginger”, così come la sua passività esasperante. Jane Eyre “delicato ed etereo”, si rifiuta di mangiare davanti a Rochester, mentre Elizabeth Gaskell insiste ripetutamente che la figura di Ruth è “poca di una leggerezza entusiasmante. In Goethe delle “Affinità elettive”, il giovane Ottilie si muove in silenzio con uno “squisito movimento perpetuo”, e per le pratiche di sobrietà eccessiva nel mangiare e nel bere, alla fine, muore

Ma Osgood si riferisce alla letteratura contemporanea. Non vuole fare un trattato di storia della letteratura quanto mettere in guardia dagli scrittori contemporanee che sperano di invogliare a leggere le loro storie di (falsi) eroi. Il suo sguardo è rivolto alla pubblicistica di lingua inglese ma il discorso può essere ripetuto pari pari per quei (purtroppo) tanti libri italiani in cui l’autore si autoincensa raccontando i suoi abissi e, soprattutto, come ha fatto (avrebbe fatto) ad uscirne.

Libri moderni sull’anoressia sono scritti quasi esclusivamente in prima persona: memorie o romanzi di giovani-adulti che hanno la forma del dialogo intimo, monologhi floridi. Ecco allora che Osgood cita molti di questi autori (spesso autrici); una tale Block, reginetta della finzione sulla magrezza ispiratrice che scrive passaggi ridicolmente ellittici che si leggono come annunci demenziali per la vendita dei diamanti o di una prestigiosa acqua minerale: “Sarò sottile e puro come una tazza di vetro soffiato. Vuoto. Pura come la luce. Musica celestiale”. Se c’è un valore di verità in questo tipo di delicata e pazzesca “prosa poetica” è nel fraseggio di elisioni; infatti non è una cattiva rappresentazione dei pensieri, con i paraocchi fin che si vuole, ma pur sempre entusiasticamente fiducioso di un’anoressica.

Un altro libro compiacentemente (e furbescamente per via dell’occhiolino lanciato all’acquirente) titolato spazzatura si presenta come un intelligente e consapevole scritto che ha addirittura ottenuto il Premio Pulitzer nel 1996. Lo scrisse una tale Marya Hornbacher quando aveva solo ventidue anni. E’ pieno di frasi ammalianti. “Ci trasformiamo in scheletri divini e guardiamo agli dei come se ci potessero insegnare come non avere mei bisogno; di niente”. “Ti senti come un cubetto di ghiaccio. Ti senti come se fossi nuda e scivolata attraverso il ghiaccio sottile di un lago; annegata nell’acqua ghiacciata trasparente; non puoi più neppure respirare”.

Osgood non vuole scrivere un lungo poema arrogante; anzi ci tiene a chiarire che frasi come quelle di cui sopra sono deplorevoli sia per motivi estetici che etici.
Ma diventa quasi impossibile non collegare la malattia al proprio splendore se si vuole essere uno scrittore preciso oltre che intelligente. Ed Osgood lo è. Perciò cita autori importanti come Nietzsche, Lacan e Feuerbach, e usa parole come “ragnatela” ed “etereo”.

Molto esperta nella riabilitazione seguendo le migliori pratiche, quelle che danno i risultati più efficaci sa che “i dettagli sono veleno per questo lavoro”; infatti non fornisce nessun numero per illustrare come malnutrizione faccia diventare (nessun apporto calorico, senza niente fino al peso più basso). Nonostante ciò non riesce a non idealizzare la malattia, involontariamente. E’ la sua felicità che trasuda dalle parole a tradirla. Il movimento “pro – ana”, scrive, “è una sorta di culto della morte nebuloso in cui ogni membro è la propria demagogica personale onniscienza”. Io e Giovannini scoprimmo i pro-ana in Italia già dieci anni fa e lanciammo un segnale di allarme agli educatori ed ai genitori. Abbiamo sempre voluto chiarire che non si tratta però di fare la caccia alle streghe rincorrendo quei siti per farli chiudere, ma che essi dovevano essere ascoltati come il luogo di dolore delle deliranti esaltazioni della sofferenza anoressica.

La malattia di per sé è il “gelo permanente dovuto all’avvicinarsi troppo alla morte, quasi a sfidarla, a giocarci provocatoriamente”. Anche la Osgood cade esattamente nelle caratteristiche che insulta. Scrive infatti, “Cerchiamo di sfatare i miti dell’anoressia adagiandoci sulla sua complessità e sulle sue brutture usando le belle parole per descrivere una sorta di graziosa sofferenza, uno stato spirituale; un’estasi a due passi dalla beatitudine”.
segue…

Umberto Nizzoli