Già dai titoli i libri delle ex anoressiche cercano di colpire. Naturalmente ogni libro che cerca di catturare l’attenzione del pubblico usa alcune enfasi e trasmette euforia per certi comportamenti dovuti alla dipendenza; deve risultare attraente almeno quando lo scrittore sta discutendo certi picchi maniacali o la dedizione diabolica con i suoi spasmi. Mi riprometto di portare il lettore dentro alla formazione di questi spasmi mentali, nel craving una prossima volta. Ma c’è una differenza: nessuno vuole essere un alcolizzato, nessuno vuole diventare un giorno un partecipante alle riunioni dei vari (Alcolisti, Narcotici, Obesi, Gambler, ecc ecc) Anonimi. Invece le anoressiche traggono piacere dalla vertigine della malattia. Anche quando vorrebbero tenere lontane dalla malattia il pubblico. Osgood ha chiamato il suo libro, come sparire. Una terrificante traccia per desiderosi del mistero.

“Ho guardato con gioia come la mia clavicola un bel giorno è emersa dalla carne del petto”, Osgood ricorda. Non vi è alcun ricordo parallelo per qualsiasi altro tipo di dipendenza patologica. Nessuno ad esempio scrive che ha guardato con gioia i contrassegni lasciati dalla droga materializzati sugli avambracci.

Il progetto di Osgood, quindi, sembra destinato a fallire: qualsiasi scrittura sull’anoressia scritta da una ex anoressica rischia di renderla più interessante di quanto già non sia in realtà; compreso un libro che si propone di condannarla. Per quanto lei protesti è chiaro dal modo con cui anche Osgood scrive che la malattia la eccita ancora. In questo senso, il libro è un ritratto incredibilmente realistico della anoressia, che è il tutto. Un tutto basato sulla illusione, il che la rende emozionante.

Eppure come si fa a non leggerli? Se non altro per capire. Andrebbero consigliati a chi non ha il problema personalmente e non ne è neppure esposto e vietati, se si potesse, a chi è vulnerabile alla malattia. La autrice si racconta: ho sopravvissuto per un intero anno al college mangiando solo lattuga, ogni tanto yogurt magro, qualche sottaceto, un tipo di pasta a bassissimo contenuto calorico tra l’altro troppo costosa e difficile da trovare. Ogni tanto mi sono concessa un budino a base di zucca con su degli spruzzi di spezie.

Quando non stavo preparando magri (e in retrospettiva disgustosi) pasti per me, stavo facendo cose veramente disturbati: dimenticare, si fa per dire, volutamente libri in biblioteca in modo che avrei dovuto tornare indietro a prenderli lasciati, inconsciamente, sopra scatole di immangiabili oggetti (matite, penne, saponi) perché ero così abituata a guardare le etichette nutrizionali mentre facevo i compiti nella sauna della palestra completamente vestita, l’unico modo per sentirmi calda. Riesco a malapena a riportarmi con la mente a quel periodo, non perché mi deprime, ma perché lo trovo assolutamente noioso. Quei cibi e quei comportamenti bizzarri sono infinitamente più seducenti se raccontati da fuori che vissuti dentro. Pensarlo di averli fatti è pazzesco. Conclude la Osgood: “anche scriverli oggi rischia di annoiarmi se non ci fosse ancora qualche (minuscola?) parte di me che vuole stare male; se non fossi malata non avrei mai voluto farlo”.

Quando si tratta di scrivere sull’anoressia, l’ unica mossa veramente radicale sarebbe quella di mostrare chiaramente quanto profondamente noiosa è la condotta anoressica, altro che triste o pruriginosa o sovradeterminata e fortissima! L’antefatto della storia di malattia è tante volte meno attraente di quello che di solito si legge: sembra che piaccia credere che una tale distorsione abbia sempre radici psicologiche in traumi o in qualche storia personale sinistra; ma nella realtà nella maggioranza dei casi non è così. “Se si vuole morire di fame e si ha una certa costanza, servono solo due settimane”, scrive Osgood . Il suo punto di vista è che l’anoressia è spesso poco più che una sorta di tautologia autoinflitta: l’ideologia di volere morire di fame è ciò che permette di morire di fame davvero. E ‘vero, ma da brava ex anche questa autrice semplifica troppo; infatti una persona mentalmente isolata che seppure volontariamente sceglie di non mangiare fino a quando è assuefatta a non mangiare e rischia di morire non lo fa per raccontarsi una bella storia.

Non so a che cosa un libro volutamente noioso sull’anoressia sarebbe simile. Comunque la Osgood ci va davvero vicino quando scrive, “mi sedevo in classe a fare trigonometria, calcolavo il mio apporto calorico ossessivamente, lo annotavo a margine del mio notebook ed ogni volta veniva la stessa risposta; eppure ogni volta che sentivo respinti i miei desideri di risultare magra, supe-magra, vivevo la matematica come inaffidabile”. Immagina la ragazza che sta ferma concentrata a fare e rifare il calcolo di quanto assumere, come smaltirlo, come sopravvivere, senza smettere mai di ripetere i calcoli, pur sapendoli fare benissimo, con l’illusa attesa che diano finalmnte un responso più vicino al suo delirio. Mentre la vita va, fuori ed attorno, senza avere né la forza né il desiderio di alzare gli occhi da quei calcoli. Immagina. In questo modo vedi una descrizione molto più accurata della quotidianità della malattia, più ossessiva e mediocre di quelle scene forti che mostrano la fuoriuscita delle clavicole dal corpo o gli yogurt ghiacciati o le storie di abuso sessuale o l’angoscia spaventosa di quei mostri tecnologici per la alimentazione forzata.

Se vogliamo proteggere la nostra gioventù di norma più sensibile vulnerabile, è molto meglio essere onesti e dipingere la vita delle anoressiche come in realtà sono: ossessive, ripetitive, lentamente suicidali; persone che evitano le altre persone, che si privano dell’amore e della dolcezza per spendere il novantacinque per cento della loro energia mentale a contare le calorie delle verdure verdi che hanno paura di introiettare. Non vorremmo più vedere libri che raccontano l’epopea della ripresa dopo il disastro; libri che riempiono le tasche di novelli eroi della risalita dall’inferno. No. Chi ha responsabilità ed educa o alleva i giovani è bene che da un lato non demonizzi e dall’altro non enfatizzi le condotte di dipendenza; specie di eroi del male, seducenti e dannose. Chi ha responsabilità deve essere onesto e sincero e spiegare che la vita dell’anoressica è davvero noiosa; altro che eroina votata alla beatitudine.

Quando aveva quattordici anni la Osgood fu affascinata dalle storie di donne che digiunavano. Ha divorato le loro memorie; ha fagocitato articoli di riviste, immergendosi nei dettagli più piccanti delle loro memorie. Era affascinata a leggere quanto poco esse mangiassero, quali erano i loro pesi più bassi, a quali spietati regimi di esercizio si sottoponevano – per imparare ciò che ci vuole per diventare essere il best dell’anoressia. Adesso scrive contro quelle stesse letture e quelle autrici. Ma il sapore della verità e della prevenzione risiede nel fare vedere il più concretamente possibile la giornata tipo di chi, per raggiungere la vetta della magrezza, si riduce a pensare giorno e notte sempre e solo a quante calorie ha il maledetto cibo che deve prendere per rimanere viva. Altro che vertigine, che noia ragazzi!

Umberto Nizzoli