E’ fin troppo semplice trovare un argomento in crisi di cui parlare.

Ci sono crisi dappertutto, di differente gravità e diffusione. Alcune sono recenti altre

risalgono a tempi passati, crisi che si trascinano come normalità. Si potrebbe fare una raccolta delle crisi, che so?, pubblicare un elenco; vedremmo che sarebbe molto lungo.

Vivere con le crisi, meglio, vivere nelle crisi: dovrebbe diventare materia di insegnamento in famiglia e nelle scuole. Tanto ti toccherà, prima o poi ti toccherà, dice l’insegnante in classe. Quindi impariamo a conviverci.

No. Non dobbiamo imparare a conviverci passivamente. Dobbiamo sperare, dobbiamo trasmettere la speranza in un cambiamento. Anche se le cose in certi campi vanno male, vanno peggio di prima.

Prendiamo la salute mentale. Lo avevamo capito subito, personalmente come presidente di una società scientifica nazionale regolarmente riconosciuta segnalai al ministero i possibili danni psicologici e comportamentali che avrebbe potuto comportare la pandemia. Era il 7 aprile 2020. Nonostante io e gli altri colleghi che lanciavamo quell’appello rimanessimo praticamente ignorati, i fatti oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Non tutto può essere addebitato alla pandemia. L’aggravamento della salute mentale di tante parti di popolazione dipende da vari fattori. Fattori vicini e fattori più lontani. Se c’è una cosa che la pandemia ha messo ben in chiaro è che fattori ininfluenti per la propria qualità praticamente non ce n’è. Tutto è interconnesso, non c’è salute personale se si è circondati dalla malattia. Un battito di ali di una farfalla in Amazzonia può suscitare un uragano in Texas, insegna la sistemica.

A peggiorare la salute mentale ci stanno povertà, disuguaglianze, precarietà, ipercompetitività, frenesia, stress, continua esposizione nel teatro sociale, ritmi forsennati, violenza fisica e verbale, abusi a bimbi in famiglia alle donne, consumo di alcol e di droghe, abuso di psicofarmaci, continua connessione alla rete, rabbia, invidia e gelosie. La pandemia e il lockdown hanno solo, se si può dire solo, messo sopra un ulteriore carico.

La diffusione della malattia mentale è sotto gli occhi di tutti: incidenti, aggressioni, esplosioni fisiche o verbali, addirittura contro gli insegnanti del figlio o dei medici che stanno curando i tuoi cari in una sequenza un tempo impensabile. Ma ci sono molti che anziché sull’esterno, implodono dentro: non escono di casa, coperti da insicurezze e vergogne rinunciano a amicizie, incontri, scuola, lavori, persino alla vita. Suicidio e idee suicidali sono anche essi fenomeni in crescita.

Preoccuparsi sì, ma non spaventiamoci. Occorre consapevolezza, per questo non va bene chiudersi gli occhi. La consapevolezza è la premessa per agire in modo efficace.

Possiamo avere speranza anche perché a fianco di questo panorama disastrato ci sono grandi spazi di generosità, di solidarietà, di resilienza. Dovremmo coltivare queste energie positive, sostenerle.

Purtroppo anche su questo punto il quadro è a luci e ombre.

Se le cose stanno come brevemente ho descritto, si fa presto a concludere che le benemerite azioni di prevenzione non hanno funzionato granchè. Buone nelle intenzioni, ma poco efficaci nella pratica. Non abbiamo la possibilità di fare il conto di cosa sarebbe successo se non fossero state fatte; si potrebbe sempre dire che senza quella massa di tentativi le cose sarebbero ancora peggio. Chissà.

All’aggravamento della condizione di salute menatle generale ha contribuito la modesta attenzione ad essa riservata dai decisori politici e istituzionali. E’di poche settimane fa il taglio di un contributo precedentemente assegnato ai servizi per i disturbi alimentari! Il governo diede 25 milioni di euro in 3 anni, una cifra ridicola rispetto alla vastità del fenomeno. Dalle nostre parti, parti in cui la concretezza è un parametro esistenziale, si dice meglio piuttosto di niente. Bene l’ultima finanziaria aveva tagliato anche quel misero “piuttosto”. Resisi conto della gravità di un messaggio simile, il governo si è rapidamente ricreduto, reintroducendo l’obolo. L’episodio, ben al di là della cifra e dell’argomento, illumina la poca considerazione che riceve la salute mentale da parte dei decisori. L’epidemiologia spiega che la cattiva salute mentale è causa di circa il 20% delle condizioni di malattia della nostra popolazione. Ebbene ai servizi per la salute mentale viene dato meno del 4% dei fondi della sanità. La trascuratezza, la mancanza di risposte, l’assenza di servizi sono anche queste cause dell’aggravamento della salute mentale complessiva.

In questi ultimi decenni la salute mentale pubblica è in crisi.

Il modello biomedico/tecnologico dominante nell’approccio alla sofferenza psichica ha prodotto risultati deludenti. Eppure è stato seguito in tante università.

Oggi è messo in seria discussione in tutto in mondo, ma da noi la prospettiva dell’umanizzazione della cura è stata quasi abbandonata. Non ci fossero alcune associazioni di volontariato, in prevalenza si è tornati alla logica dell’“istituzione totale”. Quella contro cui dagli anni ‘70 in tanti ci siamo battuti. Oggi ha forme rivisitate, alla reclusione delle persone sofferenti si è sostituito lo stigma del loro “contenimento” in mere esistenze diagnostiche (sei autista, sei schizofrenico/a, sei anoressico/a, sei…..), costruite, sì costruite, in funzione di trattamenti farmacologici sintomatici. Ormai in numerosi convegni, io stesso ho trattato il tema al congresso europeo Aepea di Parigi, si chiarisce che le classificazioni diagnostiche vigenti servono a chi fa ricerca, a chi fa pianificazione, a chi imputa i costi nei bilanci, a chi organizza i servizi, ma non servono a chi fa clinica, non servono a chi cura. Infatti non c’è “matching” fra quelle diagnosi e il tipo di cure che vanno fatte. A meno che……..a meno che non si usino i farmaci.

Molte ricerche scientifiche mostrano l’uso eccessivo, inappropriato dei farmaci, che soffocano insieme ai sintomi, anche la persona. Molte ricerche e linee guida indicano la possibilità concreta di un loro uso, accurato, e sempre combinato con una presa in carico più globale. Il trattamento farmacologico mirato e funzionale al contenimento dell’angoscia acuta, invasiva, e della depressione va coadiuvato da un lavoro paziente di sostegno relazionale e di accoglienza umana del dolore. Molte ricerche chiariscono che l’efficacia delle cure prevede la presa in carico globale. Ma sono conoscenze ignorate.

I servizi per i bambini e gli adolescenti sono palesemente inadeguati. In molte aree geografiche non si trovano neanche gli specialisti. La psicoterapia, intesa come  elaborazione soggettiva del dolore, valorizzazione dei desideri e dei sentimenti e strumento di riappropriazione dei propri spazi di vita e di ripristino di legami affettivi personalizzati, è in declino. Molti servizi non la offrono più, costa troppo, dicono i manager. Eppure è lo strumento elettivo di cura.

Se si prende l’intero ammontare dei trattamenti erogati dai servizi pubblici, le psicoterapie sono meno del 6%. Le visite domiciliari sono ridotte al lumicino. Il lavoro del reinserimento di chi soffre nella sua comunità, tende a ridursi in assistenza economica, un assegno al posto di un accompagnamento.

Se non si creano comunità curanti, accoglienti, i malati saranno sempre segregati. Eppure oggi la relazione terapeutica è chiusa nel rapporto tra curanti e curati. Curare la famiglia costa troppo, figurarsi una comunità.

L’attuale stato delle cose favorisce la spersonalizzazione dei vissuti sia degli operatori sia delle persone sofferenti. E tende a creare un clima depressivo, emotivamente povero, negli spazi della cura. Anziché ambienti in cui si respira la rinascita della vita, capita di andare in ambienti chiusi, percorsi da rabbie da paure.

Ci vorrebbe chi si fa carico di cercare di cambiare le cose. Buoni sistemi di cura della salute mentale sono ingredienti di vite cittadine più sicure e solidali. Speriamo.

(citazione: Nizzoli U www. umbertonizzoli.it)