Una ricerca recente riportata da JAMA Pediatrics fatta su 169 ragazzini dai 12 ai 13 anni seguiti per un triennio

ha messo in luce che chi ha un'abitudine frequente di vedere i social può vedere modificato lo sviluppo del proprio cervello facendo diventare i cervelli di questi adolescenti più sensibili alla ricompensa e alla punizione.

I sistemi neurobiologici della ricompensa e della punizione sono quelli attivati sottostanti a tutte le condotte di dipendenza.

Ora questi studiosi hanno controllato che all'inizio della ricerca i partecipanti riferivano con che frequenza entravano sui diversi social Instagram Tik Tok, Snapchat eccetera.

Le loro risposte andavano da almeno una volta al giorno a anche 20 e più volte al giorno.

I partecipanti sono stati sottoposti anche a analisi cerebrali con la risonanza magnetica funzionale, il brain imaging. Le sedute di neuroimmagine servono per misurare l'attività cerebrale sia quando i partecipavano attivamente ai social sia quando vedevano i feedback dei loro pari.

L'attività cerebrale dei partecipanti impegnati nel controllo abitudinario dei social partecipandovi più di 15 volte, o anche di più, al giorno si modifica e espone queste persone ad essere più sensibili ai feedback sociali per tutto il periodo di tempo successivo; forse per la vita.

La attività di abituali controllo dei social ha (avrebbe, meglio essere prudenti. La ricerca in fondo è sì autorevole, ma è condotta su un numero di persone non molto alto) anche messo in luce in modo evidente una riduzione del volume del cervello di alcune regioni, in particolari dell'amigdala e della corteccia prefrontale, compromettendo così le aree cerebrali deputate alla comprensione cognitiva e alla motivazione che verrebbero disattivate in risposta all'anticipazione del sistema di premiazione o di punizione derivante dai social.

Usare molto i social espone perciò più facilmente alle condotte di dipendenza.

Si apprende poi da APA, la società amercana degli psicologi, che uno studio risultato da una ricerca apparso in Nature Neuroscience pare suggerire che il cibo e le droghe possono produrre il craving, il desiderio spasmodico e compulsivo, appunto sia per il cibo che per le droghe. Il desiderio spasmodico dell’uno e delle altre è associato con la attivazione di aree particolari cerebrali e di neuro-marcatori che potrebbero quindi aiutare una volta individuati a facilitare la diagnosi.

Anche in questo caso i ricercatori hanno usato la risonanza magnetica funzionale per studiare l'attività del cervello di 99 partecipanti alla ricerca che erano stati selezionati fra i consumatori di droghe e non consumatori di droghe formando due gruppi di pari dimensione messi in comparazione mentre venivano esposti ad immagini di droghe o di cibo particolarmente palabile.

Successivamente i partecipanti venivano analizzati su quanto forte fosse il craving provocato dagli stimoli a cui erano stati esposti.

I ricercatori hanno usato strumenti di assessment del craving combinati con analisi cerebrali con neuro-imagine per sviluppare una macchina di intelligenza artificiale capace di fare machine learning e che produce un algoritmo che possa predire la intensità del craving per le droghe o per il cibo. L’algoritmo partendo dalle immagini cerebrali ottenute con la risonanza magnetica identifica i pattern dei segni neurobiologici, inclusa l'attività in alcune diverse aree del cervello precedentemente connesse all'uso di sostanze droghe o di craving per il cibo, così come ai livelli di dettaglio perché, spiegano, che si dimostrano più connessi al craving e a sub regioni particolari del cervello.

I ricercatori sperano quindi che essi possano un giorno essere utilizzati per identificare coloro i quali sono a rischio di diventare dipendenti dall’uso di sostanze o che possono esporsi a condotte di binge eating con il conseguente aumento di peso. Identificarli presto e prima potrebbe precocemente spingere costoro al trattamento.

Si tratta di vedere se ci saranno un giorno persone disposte a farsi trattare ancor prima di avere i sintomi della malattia sulla sola base che i loro marcatori neurobiologici li descriveranno come più facilmente esposte a diventare dipendenti da droghe o da cibo.

Con altrettanto vigore avanzano ricerche ai limiti del sentire etico.

Żernicka-Goetz, scienziata genetista presentando i risultati di una sua ricerca ha detto che possiamo creare modelli simili a embrioni umani riprogrammando le cellule.

L’obiettivo è indubbiamente nobile: studiare la possibilità di modificare geneticamente le cellule staminali mentre crescono e si differenziano in laboratorio per affrontare il problema di malattie genetiche rare altrimenti irrisolvibili.

A mio parere da tutte queste ricerche si intuisce il desiderio scientista di programmare, quindi di avere sotto controllo, la natura e l’essere umano nella loro interezza, plasmando ogni dimensione della vita secondo progetti di intervento sempre più ambiziosi e invasivi.

Non so se esiste uno spazio per intervenire o correggere queste traiettorie, almeno però siamone coscienti.