Nizzoli
riportiamo l’intervento (integrale!) di Umberto Nizzoli pubblicato nell’edizione del 24/07/07 del giornale “Il Carlino”

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Oggi giorno c’è sempre più la voglia di risolvere le questioni complesse con delle soluzioni lapidarie, possibilmente definitive; un po’ ciò è dovuto dal crescere della complessità e della fatica che si deve fare per muoversi all’interno. Allora l’idea di risolvere il tutto col machete viene, è comprensibile, ma è sbagliato.
Ma partiamo dal fondo della dichiarazione del Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani, laddove si raccomanda di informarsi attentamente e di non accettare “facili diagnosi psichiatriche”. Viene da dire, evviva! Infatti il modo suggerito va esattamente nel senso della visione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, quando chiama a rompere le cosiddette a-simmetrie cognitive (nell’incontro fra il medico ed il paziente c’è uno che sa, il medico, e l’altro che si adegua, il paziente) per puntare ad un mondo in cui il cittadino è pienamente informato e sa fare le sue scelte sulla base delle sue preferenze in piena consapevolezza discutendone alla pari col suo medico.

Ma il modo in cui viene fatta la raccomandazione fa più facilmente pensare che il cittadino debba essere cauto e vigilante per ..proteggersi. Qui le cose si fanno più delicate perché da una parte sembra doversi proteggere dallo stigma che viene generato dalla emissione della diagnosi di malattia mentale: detta così sembrerebbe un specie di anatema che una volta lanciato genera mostri: l’esperienza purtroppo va effettivamente in quel senso perché la malattia mentale, benché sia appunto una malattia, non è affatto considerata socialmente come le altre; ne derivano pesanti conseguenze da cui è importante proteggersi. Non è un caso che i piani che si indirizzano ai servizi per la salute mentale mettano la lotta allo stigma come una priorità. Lo stigma aggrava le malattie, invalida le persone e le fa diventare croniche: una volta entrati dentro a quello stereotipo, quella identità non se ne esce facilmente. Per questo i buoni servizi sono alleati coi propri pazienti, e le loro famiglie, per difenderne la dignità e l’integrità sociale. Ma la raccomandazione sembra suggerire di doversi difendere dal medico, dal clinico: una specie di untore che andrebbe inibito. Non voglio negare che possano esistere clinici che con presunzione buttano lì diagnosi “pesanti” senza trattenersi dall’indurre fenomeni marginalizzanti: fa bene il Comitato ad essere minaccioso verso costoro; non rispettano, se fanno così, il codice professionale. Ma cosa ben diversa è quanto si fa secondo i più aggiornati approcci scientifici.

Proprio per la delicatezza della valutazione e poi del trattamento dei disturbi mentali è sempre buona cosa prima di agire, prescrivere un farmaco o organizzare una seduta o una vera e propria psicoterapia, avere il più chiaro possibile le condizioni della persona cui ci si rivolge: proprio per rispettarla occorre prima avere un’idea il più chiara possibile del suo funzionamento mentale e del suo stare. Quindi chiariamoci: è essenziale fare diagnosi psicologica prima di qualsiasi intervento; troppi sono i rischi cui andrebbe incontro quel tale cui si fanno trattamenti senza prima avere chiarito il suo stare. Quindi il Comitato dovrebbe avvertire i suoi lettori che essi debbono pretendere una diagnosi prima di qualsiasi intervento, non di rifiutare.

Chiarito questo punto però si aprono ulteriori questioni altrettanto delicate. Cosa si sa e cosa si utilizza per fare diagnosi? I più importanti cambiamenti del sistema di classificazione (nosografia) psichiatrica si sono essenzialmente manifestati attraverso l’adozione dei diversi “Manuali Diagnostico Statistici” (D.S.M.) dell’ American Psychiatric Association che si sono susseguiti fino all’attuale D.S.M. IV TR. Il DSM V° è già atteso per il 2011.. Progressivamente le edizioni del D.S.M. sono divenuti gli elenchi di una serie di sintomi e condotte direttamente rilevabili organizzati per formare le diverse diagnosi. Esse sono in questo modo diventate riproducibili, controllabili e comunicabili agli altri professionisti; ciò al fine di garantire la possibilità di valutare gli interventi, di renderli standardizzati e trasformarle da “intuizioni” più o meno giustificate da parte di qualche professionista o “guru” in dati oggettivi.

Non si trascuri che tutta questa ricerca nasce negli U.S.A. dove c’è anche, ma non solo, la preoccupazione di difendere i professionisti dalle accuse di “malpractice” che li portano a dovere rispondere dei loro interventi davanti a tribunali ed assicurazioni. Un po’ quel che suggerisce si faccia qui da noi il Comitato.

Il DSM cerca di mettere limiti alla eccessiva soggettività delle diagnosi e dei conseguenti trattamenti in assenza di criteri esatti e confrontabili. La meta ideale proposta sembra quindi essere una nosografia neutrale, oggettiva, in una parola scientifica. Tuttavia la completa oggettività nel campo dei disturbi mentali è davvero possibile? Se non lo è, fingere una oggettività precisa è scienza o è mistificazione? Infatti la affidabilità della diagnosi, cioè la probabilità che due o più clinici indipendenti si trovino d’accordo nella definizione del disturbo poiché entrambi rilevano i medesimi visibili sintomi esteriori lascia cadere una quantità di altri aspetti rilevanti legati alla soggettività del paziente. La soggettività per sua natura non è completamente oggettivabile. Né si trascuri il fatto che in generale in tutta la medicina (e non solamente in psichiatria o in psicoterapia) il basarsi solamente sui sintomi può magari rivelarsi utile e, talora, necessario ma raramente è soddisfacente: infatti se non si agisce sull’etiopatigenesi delle malattie, cioè su cosa c’è di retrostante ai sintomi (come ad esempio la causa di una infezione o del dolore), si è lontani dalla possibilità di effettuare terapie efficaci.

Ecco allora che si capisce la scelta operata nel DSM del termine disturbo e non di malattia (alle cui spalle si dovrebbe collocare un modello eziologico che spiega la storia del formarsi della malattia). I vari quadri diagnostici sono perciò sindromi, vale a dire raggruppamenti di sintomi che tendono a presentarsi in relazione tra loro, anche se spesso in molte possibili diverse combinazioni; diventano così modi di comportarsi che si presenta in un individuo e che sono associati a disagio, a disabilità, o a un’importante limitazione della libertà individuale. Allora se i sintomi e i comportamenti manifestati sono il “tutto” su cui fare diagnosi oggettive, si può finire col considerare disturbo ogni attività che si ripeta e nei confronti della quale il soggetto non si senta o dica di non essere del tutto padrone di sé. Ora si chieda il lettore quanti disturbi lo affliggono. Infatti si rischia, in pratica, di patologizzare tutta la vita mentale. Rilevando solo i sintomi si è assistito al moltiplicarsi dei disturbi: da 128 del DSM I° ai 357 del D.S.M. IV°; ed altri ne arriveranno. Ora è evidente che il disturbo legato ad un uso insistente e pervasivo di internet può esistere e risultare compromettente la qualità della vita dell’individuo e dei suoi familiari. Lì porta inevitabilmente la linea della oggettività.

Chiediamoci però adesso: chi è l’oggetto della rilevazione diagnostica? L’uomo continua ad essere l’oggetto specifico di competenza. A differenza di quanto accade in medicina, infatti, in psichiatria e in psicodiagnosi i sintomi non sono dati oggettivi, ma esperienze vissute dalla persona che hanno una dimensione emozionale, narrativa e storica. Sono dimensioni più vicine alle scienze “umane” che a quelle “esatte”.
Purtroppo oggi sta dilagando una psichiatria dell’esteriorità che guarda solo i sintomi, li organizza in diagnosi oggettive e prescrive i farmaci senza tanto preoccuparsi di cosa ci sia dietro ai sintomi e di come ogni paziente vive nella sua soggettività l’ angoscia, l’ossessività o anche la felicità.

Neppure fare dei test per formulare la diagnosi ci salva da questi equivoci.
Prendiamo ad esempio un test di personalità, il MMPI, che è considerato oggettivo ed è il più conosciuto e diffuso nel mondo. Il suo inventore disse: “Se qualcuno crede che ci siano test o inventari di personalità di sicura efficacia, lascio a lui il compito di provarlo… “. Infatti non si possono applicare allo studio della personalità “gli stessi strumenti matematici che sono serviti per risolvere problemi in altri campi della scienza”. Ecco perché non si dà né diagnosi né cura serie se si trascura quel tratto specifico dell’uomo che è quello di essere in perenne comunicazione con sé e con gli altri, per cui in ogni dialogo, in ogni colloquio siamo esseri aperti al mondo degli altri e contemporaneamente al nostro mondo interiore. Chiudere quest’apertura con diagnosi “oggettive” e con cure esclusivamente

farmacologiche, significa spegnere non solo il colloquio con gli altri, ma anche il colloquio con sé stessi. Senza dialogo ed ascolto si calpesta la soggettività della persona e si costruisce una “scienza oggettiva” finta che non sa stare vicino ai veri problemi per cercare di risolverli. Solo l’alleanza terapeutica che sorge su una diagnosi condivisa tra clinico e suo paziente rispetta la dignità delle persone affette da disturbi mentali. Infatti non è possibile aiutare il soggetto a superare la sua sofferenza limitandosi al solo sintomo e al disturbo sociale che arreca.